20 ottobre 2023

Pensioni e gender gap, perché la previdenza in Italia non è rosa

Il XXII Rapporto annuale dell’Inps, presentato alla Camera dalla commissaria straordinaria Micaela Gelera, evidenzia che il 56% della spesa per trattamenti pensionistici va agli uomini con assegni del 36% superiori a quelli delle lavoratrici. Cosa si può fare? Ne parliamo con la Prof.ssa Paola Fersini, attuario e docente di Matematica Finanziaria presso la Luiss Guido Carli, esperta in gender gap pensionistico

I numeri dell’Inps sulla previdenza femminile

Il XXII Rapporto annuale dell’Inps, presentato in Parlamento il 13 settembre 2023 dalla commissaria straordinaria Micaela Gelera, evidenzia che il 56% della spesa per trattamenti pensionistici va agli uomini con assegni del 36% superiori a quelli delle lavoratrici. Dalla fotografia scattata dagli esperti dell’Ente previdenziale oggi emerge una conferma del gender gap pensionistico, già riscontrato negli anni scorsi. Nel momento in cui scriviamo, in Italia, il 52% dei pensionati è rappresentato dalle donne che però percepiscono solo il 44% dei 322 miliardi di spesa destinati alla spesa per trattamenti pensionistici[1]. Numeri che fanno riflettere e riaccendono il dibattito sul gender gap pensionistico italiano. Ma di cosa parliamo, esattamente?

 

I dati della Commissione Europea sul nostro divario di genere

Il cosiddetto “gender gap in pension income” è un indicatore sintetico utilizzato dalla Commissione Europea per monitorare l’eventuale disparità di genere nel trattamento pensionistico tra i Paesi comunitari. Esprime la differenza, in termini percentuali, nel reddito pensionistico lordo percepito dagli uomini e dalle donne in un dato anno. E nel 2019 il valore italiano è stato decisamente preoccupante: 35,6% contro il 29,5% della media europea. Da qui l’allarme per il “gender gap pensionistico” nazionale, di cui così spesso si sente parlare da qualche anno a questa parte. Ma le cose stanno davvero così? Cosa ci raccontano, in merito, i dati più recenti della Commissione Europea? Nel 2021 l’importo medio della pensione di vecchiaia per le donne è stato del 37% inferiore rispetto a quello dei pensionati uomini[2]. Inoltre, sappiamo che nel 2021 le donne sono state rappresentative del 51,8% dei pensionati, percependo tuttavia il 43,9% dell’importo lordo complessivamente erogato per pensioni (137.483 milioni di euro contro i 175.520 pagati agli uomini)[3]. I dati sembrano cristallini e raccontano una criticità italiana evidente.

 

Gender gap pensionistico italiano: vero o falso?

Tuttavia, molti autorevoli economisti ritengono il gender gap pensionistico nazionale un falso problema. Come mai? Il professor Alberto Brambilla, Presidente Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali, spiega che la narrazione del gender gap pensionistico è alquanto imprecisa poiché alle pensionate vengono assegnate, in realtà, un maggior numero di prestazioni pro capite: in media 1,50 a testa contro le 1,32 degli uomini. Nel dettaglio, come spiega il Professore sul sito di Itinerari Previdenziali, le donne rappresentano il 58,5% dei titolari di 2 pensioni, il 68,6% dei titolari di 3 pensioni e il 70,2% dei percettori di 4 e più trattamenti[4]. Questo perché – più spesso che agli uomini – alle pensionate vengono assegnate pensioni di reversibilità e diverse misure di matrice assistenziale. Tuttavia, pur condividendo l’analisi fatta, vale la pena sottolineare un altro dato cruciale sull’argomento.

 

Se le pensionate italiane sono a rischio povertà

Come ha rilevato l’Osservatorio Internazionale per la coesione e l’inclusione sociale (O.C.I.S.), nei welfare state maturi i sistemi pensionistici per la tutela della vecchiaia dovrebbero perseguire almeno un obiettivo fondamentale: contrastare o prevenire la povertà nella cosiddetta terza età. E qui l’Italia non è messa affatto bene per quanto concerne il gender gap. Infatti, se consideriamo il “rischio di povertà ed esclusione sociale”, così come definito da Eurostat, per gli individui sopra i 65 anni, ci accorgiamo che esso è più elevato per le donne sia rispetto agli uomini in Italia (23% contro 16%) sia rispetto al dato medio relativo alle altre donne in UE, per le quali il rischio si ferma al 21%[5]. E questo nonostante il maggior numero di prestazioni percepite dalle donne. A conti fatti e secondo noi, quindi, il gender gap pensionistico italiano è un problema da risolvere, perché un quinto delle italiane over 65 anni è a rischio povertà (nonostante la spesa per le pensioni, in Italia, sia più alta della media UE). Ma quali sono le cause del fenomeno?

 

Donne e lavoro, tutti i numeri della non occupazione

Certamente vanno ricercate nelle criticità stesse del mercato del lavoro nazionale. Quest’ultimo è caratterizzato, infatti, ancora e soprattutto nel Mezzogiorno, da tassi di occupazione femminili di gran lunga più bassi della media UE e da livelli retributivi poco favorevoli alle lavoratrici e, dunque, alle future pensionate. Facciamo chiarezza con qualche numero rilevante. Secondo gli ultimi dati Eurostat, riferiti al terzo trimestre 2022, il tasso di occupazione femminile in Italia è in crescita, ma resta assai più basso della media UE. Il nostro Paese è fanalino di coda in Europa insieme alla Grecia, con il 51% delle donne al lavoro tra i 15 e i 64 anni, a fronte del 64,9% della media europea (in UE spicca la Svezia col 78% delle donne occupate, grazie a politiche familiari molto favorevoli)[6]. Nel Belpaese persiste, infatti, un divario significativo in termini di occupazione: circa 20 punti percentuali tra quella maschile e femminile. La prima si attesta intorno al 70% contro il 51% della seconda. Perché? È il lascito culturale di una società che ha da sempre assegnato il lavoro di cura esclusivamente alle donne e quello fuori casa agli uomini.

 

Quali prospettive e soluzioni per una previdenza più rosa?

Come evidenzia l’O.C.I.S., le lavoratrici di oggi continuano ad essere svantaggiate anche dal differenziale retributivo e da carriere mediamente più brevi e frammentate rispetto ai colleghi: la durata mediana della carriera lavorativa è infatti di circa 25 anni per una donna, contro i 40 degli uomini (e per circa il 30% delle donne la durata della carriera è perfino inferiore ai 14 anni). Questi dati spiegano e riflettono il gender gap pensionistico delle pensionate di oggi e di domani. Ma cosa si può fare per contrastare il rischio povertà che, come abbiamo visto, affligge le italiane over 65? Abbiamo deciso di approfondire questo delicato argomento con la Prof.ssa Paola Fersini, attuario e docente di Matematica Finanziaria presso la Luiss Guido Carli, esperta in gender gap pensionistico, che nel 2019 ha stilato con lo studio Olivieri Associati per Assofondipensione una relazione attuariale proprio sulla parità di trattamento tra uomini e donne nelle forme pensionistiche complementari collettive.

 

Professoressa, con la Deliberazione del 22 maggio 2019 “Disposizioni in ordine alla parità di trattamento tra uomini e donne nelle forme pensionistiche complementari collettive”, pubblicata in Gazzetta Ufficiale il 5 giugno 2019, la COVIP ha previsto che tutte le forme pensionistiche complementari collettive siano obbligate a adottare disposizioni sulla parità di trattamento tra uomini e donne. Ad oggi qual è la situazione in essere e cosa è cambiato rispetto al 2019?

La Deliberazione la COVIP del 22 maggio 2019 ha previsto che tutte le forme pensionistiche complementari collettive siano obbligate ad adottare disposizioni sulla parità di trattamento tra uomini e donne. In particolare, è vietata qualsiasi discriminazione, diretta o indiretta, tra uomini e donne per quanto riguarda: il campo di applicazione, ovvero l’area dei soggetti che possono aderire alla forma pensionistica; le condizioni di accesso; l’obbligo di versare i contributi e il calcolo degli stessi; il calcolo delle prestazioni e le condizioni concernenti la durata e il mantenimento del diritto alle prestazioni.

L’eliminazione di qualsiasi forma di discriminazione tra sessi era già prevista dalla Deliberazione COVIP del 21 settembre 2011 per le forme pensionistiche complementari collettive che erogano direttamente le prestazioni e le nuove disposizioni COVIP hanno esteso detto divieto anche ai fondi pensione collettivi che si avvalgono di convenzioni assicurative per l’erogazione delle prestazioni. Più in particolare, viene specificato che le differenze di trattamento sono consentite ove le stesse siano giustificate sulla base di dati attuariali affidabili, pertinenti e accurati.

Tutti i fondi pensione sono stati obbligati a inviare una relazione attuariale a COVIP per giustificare le differenze in termini di coefficienti di trasformazione e dunque di livello della prestazione pensionistica. Dall’analisi è emerso che, di fatto, l’utilizzo di tavole di mortalità differenziate per sesso permettono una corretta valutazione dei coefficienti di trasformazione delle prestazioni (più bassi per le donne rispetto agli uomini), che risultano quindi coerenti con la reale esposizione al rischio di sopravvivenza (le donne sopravvivono di più degli uomini, quindi, percepiranno una pensione più bassa ma per più tempo). Le rilevazioni statistiche hanno da sempre evidenziato una differenza tra la mortalità maschile e quella femminile per tutte le età, di cui si deve tener conto nella quantificazione del rischio di sopravvivenza. Nel 2022, secondo l’ISTAT, in Italia la speranza di vita alla nascita è stimata in 80,5 anni per gli uomini e in 84,8 anni per le donne.

C’è però da osservare che allo stadio attuale della genetica non sembrano esserci differenze tra i due sessi, la diversità di vita media sembra doversi imputare a differenti stili di vita e quindi di comportamento. Non sembra sia opportuno riassumere nella variabile “sesso” quelle che sono differenze appunto di comportamento. Sarebbe quindi necessario incominciare a registrare anche con l’aiuto di dati di comportamento, attualmente largamente disponibili, variabili che descrivano lo stile di vita e calcolare quindi le “tariffe” in base a queste variabili. Ci vorrà tempo ma questa è, a mio avviso, la strada da percorrere anche perché sempre di più il “genere” sta assumendo nella Società moderna aspetti sociali in via ancora di definizione. Vedasi, in proposito, le illuminanti motivazioni alla base della sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea nella causa C-236/09 (Test-Achats) e della direttiva 2004/113/CE del Consiglio nel settore delle assicurazioni.

 

Secondo l’ultima Relazione COVIP (2022), le donne partecipano alla previdenza complementare con una propensione del 17% inferiore rispetto a quella degli uomini (divario imputabile certamente a remunerazioni mediamente più basse e carriere più discontinue, ma non solo). Cosa servirebbe per migliorare questo dato?

La percentuale di donne iscritte è ancora inferiore a quella degli uomini anche a causa della loro minor partecipazione al mercato del lavoro, a carriere discontinue e a salari più bassi rispetto ai colleghi uomini. Eppure, sarebbero proprio loro che potrebbero avere maggiore bisogno di una copertura integrativa una volta raggiunta l’età pensionabile e sarebbero proprio loro a doversi tutelare in quanto più longeve.

L’adesione femminile alla previdenza complementare permetterebbe di accantonare una somma rilevante per coprire alcuni buchi contributivi che potrebbero verificarsi durante l’arco della vita lavorativa a causa di molteplici fattori, quali l’aspettativa per maternità, la maggiore propensione al lavoro part-time e la cura dei familiari non autosufficienti.

Per migliorare il dato sulla partecipazione da parte delle donne può essere opportuno rivedere i meccanismi di accesso alle forme di previdenza complementare, che oggi coprono principalmente i lavoratori con contratti più robusti sul mercato del lavoro, e promuovere i fondi pensione negoziali anche nei settori ancora esclusi. Altro aspetto fondamentale è relativo ad una adeguata campagna informativa e una maggiore educazione finanziaria.

 

Se è vero che a inizio carriera gli stipendi di uomini e donne si equivalgono, col passare degli anni il differenziale retributivo aumenta e diventa massimo al momento del pensionamento. Nel 2021 la pensione media lorda di una pensionata era di 1321 euro, mentre quella di un pensionato di 1970 euro. Le donne sono spesso costrette a interrompere le loro attività lavorative per dedicarsi ad attività di cura: cosa si può fare, quindi, per un mercato del Lavoro più inclusivo nei confronti delle donne?

Come è ovvio la disparità pensionistica è un riflesso di quella reddituale e della discontinuità di carriera; infatti, nessun sistema pensionistico può fornire pensioni adeguate se risulta inadeguato il mercato del lavoro che genera le risorse grazie alle quali le pensioni vengono pagate. La disparità dovrebbe essere ridotta all’inizio e durante la vita lavorativa e non al momento del pensionamento. Infatti, il “gender gap” non si verifica al momento del pensionamento a causa delle “regole” del nostro sistema pensionistico tanto più che con il passaggio al metodo di calcolo contributivo quanto viene versato durante la vita lavorativa viene trasformato in pensione con specifici criteri che tengono conto dell’età di pensionamento e della speranza di vita; si dice che il calcolo contributivo è in “equilibrio attuariale”, dunque non genera disparità dal punto di vista tecnico ma, essendo la pensione legata strettamente ai contributi versati, causa differenze di trattamento derivanti dalla diversa vita e carriera lavorativa di ciascun contribuente.

La questione del gap “reddituale”, che tiene conto delle differenze di carriera e di scelte lavorative tra uomini e donne, non sta tanto nella diversità di retribuzione oraria tra uomini e donne a parità di inquadramento e mansioni, ma piuttosto va vista da una prospettiva molto più complessa che è quella delle molte difficoltà di conciliazione tra il lavoro produttivo, quello riproduttivo e quello di cura.

Lo squilibrio di genere, condizionato da stereotipi di genere e che, dunque, ha matrice culturale e sociale, è a monte, cioè nella ripartizione dei carichi familiari e nella concezione dei ruoli dei genitori nella famiglia, ed impatta sia sulle scelte lavorative e sulle carriere delle donne, sia sulle loro scelte riproduttive.

Da questo punto di vista, il Covid-19 ha amplificato le già presenti di diseguaglianze di genere, oltre che sociali in senso generale mettendo ancora più in luce le difficoltà di conciliazione tra la vita lavorativa e quella privata in assenza di servizi alla persona, all’infanzia e alla terza età.

In un tale contesto, le azioni che dovrebbero essere messe in atto al fine di migliorare la condizione delle donne sul mercato del lavoro sono quelle ben note: investimento in servizi inclusivi per bambini e anziani non-autosufficienti; irrobustimento dei congedi, soprattutto quelli parentali e di paternità; sviluppo delle politiche attive del lavoro, che però funzionano soltanto in presenza di una domanda di lavoro robusta.

 

Un recentissimo paper della Banca d’Italia (luglio 2023) evidenzia una correlazione positiva tra la scelta di avere figli e il pensionamento di almeno uno dei genitori. La tendenza è particolarmente evidente nei paesi mediterranei (e soprattutto in Italia) ove i legami familiari sono più forti e le politiche familiari scarseggiano. Quali politiche, invece, sarebbero opportune per sostenere la natalità senza che i giovani debbano attendere l’aiuto dei loro genitori per decidere di avere figli?

La bassa natalità non porta solo a una riduzione della popolazione, ma anche a una accentuazione dello squilibrio della struttura per età della popolazione; a fronte, infatti, di un numero di anziani che aumenta grazie ai miglioramenti delle condizioni di vita in età avanzata, la riduzione delle nascite porta ad una diminuzione del numero di giovani. Più il tempo passa, più diventa difficile invertire la curva negativa, con effetti preoccupanti per la sostenibilità del sistema pensionistico del nostro Paese.

Per sostenere le scelte positive di fecondità e contenere gli squilibri demografici, quindi, è necessario ridurre prima di tutto le diseguaglianze di genere e generazionali ma anche creare un contesto favorevole per buona crescita dei bambini, indipendentemente dalle caratteristiche dei loro genitori.

Un aspetto riguarda l’utilizzo di strumenti di sostegno al reddito familiare, che seppur temporanei fungono da ammortizzatori sociali (si pensi ad esempio all’assegno di natalità, ovvero i c.d. bonus bebè, o il bonus asilo nido oppure i voucher per l’acquisto di servizi di baby-sitting). Queste azioni di sostegno alle donne e alle famiglie sono sicuramente importanti ma non riescono a condizionare i comportamenti e i progetti riproduttivi perché sono limitati nel tempo e non è possibile farci affidamento per un lungo periodo (considerando che i figli, fino al compimento dei quattordici anni, necessitano della presenza di un adulto).

Quali potrebbero essere i versanti su cui lavorare in una prospettiva di lungo periodo? Sicuramente il rafforzamento della parità di genere e le misure di conciliazione famiglia-lavoro per le madri e i padri, tramite congedi genitoriali meglio remunerati e congedi di paternità più lunghi, servizi per l’infanzia di qualità, finanziariamente accessibili, ma anche politiche dell’istruzione che sostengano le pari opportunità e politiche del lavoro che favoriscano la creazione di buona occupazione, contrastando la precarietà e la sotto-occupazione e che, di conseguenza, possano favorire l’autonomia dei giovani e la scelta di formare una famiglia e avere figli. Infine, è importante facilitare e allargare l’accesso alle risorse indispensabili alla crescita per tutte le bambine/i indipendentemente dalle caratteristiche e dalla nazionalità dei genitori o dal luogo di residenza.

 

In sintesi, secondo Lei di quali misure strutturali e urgenti necessita il Belpaese per contrastare il gender gap pensionistico emerso dall’ultimo Rapporto Inps e rendere più rosa, finalmente, la previdenza italiana?


Bisognerebbe anzitutto cominciare da una revisione del sistema di welfare (non inteso solo come sistema pensionistico ma welfare visto in senso più ampio) al fine di renderlo efficiente e di ausilio per le donne e che permetta a loro di lavorare con le stesse opportunità e continuità dei colleghi uomini.

I fenomeni che sono stati evidenziati, quali la bassa occupazione femminile, l’alta inattività femminile, le carriere femminili compresse e il bassissimo tasso di natalità, costituiscono una vera emergenza per il Paese e possono essere ricondotti a modelli culturali e stereotipi comportamentali. Come abbiamo detto, in Italia il gender wage gap trova la causa principale nel fatto che l’attività di allevamento della prole e di cura familiare in generale, grava tendenzialmente sulle donne così riducendo le loro chances occupazionali e di carriera. Il tema del “work-life balance” è sempre più citato ma finora le politiche messe in atto sono state concentrate sul rapporto di lavoro scaricando sul datore di lavoro le esigenze connesse alla maternità, alla genitorialità, e alla conciliazione dei tempi di vita e di lavoro. Il problema vero da risolvere con azioni concrete, efficaci e di prospettiva è la scarsità di strumenti e servizi di sostegno (pubblici e sostenibili) e supporto alle famiglie (all’infanzia, ai minori di quattordici anni, alla disabilità, agli anziani non autosufficienti), fornendo gli strumenti necessari perché tutti gli individui possano scegliere liberamente come ripartire il carico del lavoro di cura tra i componenti del nucleo familiare e quindi come meglio conciliare i tempi di vita con quelli del lavoro produttivo.

 

[1] XXII Rapporto annuale INPS.

[2] Dati European Commission 2021.

[4] Decimo Rapporto “Il bilancio del sistema previdenziale italiano” redatto dal Centro Studi Itinerari Previdenziali.

[5] Osservatorio per la coesione e l’inclusione sociale, nota n. 8 edita a Dicembre 2022, Prof. Matteo Jessoula Università degli Studi di Milano.

[6] Dati Eurostat 2022.

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